Il problema è che la pubblicità associa sempre il consumo di alimenti a situazioni di piacere condiviso, socialità, integrazione: la sensibilizzazione sui rischi di un consumo indiscriminato di determinati prodotti viene percepita da un lato come una negazione della possibilità di partecipazione e, dall’altro, come un allarmismo spropositato.
L’esasperazione consumistica della connotazione di “piacere” associata al cibo pone le basi per tutti gli atteggiamenti che concorrono, nel corso dell’esistenza, ad ostacolare un’alimentazione sana, equilibrata e (per questo) piacevole. Credo che la prevenzione dovrebbe a questo punto considerare in modo più incisivo il linguaggio della pubblicità dei prodotti alimentari, diversamente il rapporto di forza tra mezzi di comunicazione di massa e professionisti dell’alimentazione (divulgatori, produttori, medici, nutrizionisti) sarà sempre sbilanciato a favore dei primi.