Il sushi, cibo tipico della cucina giapponese fatto di riso, pesce e alghe, è ormai diffuso e amato in tutto il mondo. È composto da soli 3 ingredienti, ma la loro unione è perfetta nella forma, colore e sapore. La Società americana di chimica (American Chemical Society) svela in un video i segreti chimici che lo rendono così irresistibile per il palato.
Le sue origini sono molto antiche e risalgono al 300-400 a.C.: era un modo per conservare il pesce. “Impacchettato” con il riso poteva infatti sopportare una fermentazione lunga anche un anno. Con questo processo i batteri ‘buoni’ masticano i carboidrati presenti sul riso, trasformandoli in acido – in questo caso acido lattico – bloccando così l’avanzata di batteri pericolosi, come il botulino e altri che possono contaminare o rovinare il cibo.
All’inizio il riso del sushi non veniva mangiato ma gettato via, forse perché dopo un anno diventava troppo vecchio e acido al gusto.
Ma dopo pochi secoli il sapore un po’ acidulo è diventato parte integrante del sushi, tanto che quello moderno viene insaporito con l’aceto. Nel XIX secolo il successo di questo piatto era tale in Giappone, da essere diventato un popolare ‘street food‘ che si comprava mentre si andava al lavoro. Con l’arrivo del frigorifero, la fermentazione non è più stata necessaria, e il pesce ora si mangia crudo, a parte l’anguilla e il polipo che vengono cotti.
Il riso, da alcuni chef condito con aceto e zucchero, deve avere una cottura perfetta, in modo da rimanere ben fermo, senza essere troppo appiccicoso o molliccio. Per questo durante la cottura bisogna stare attenti a non rompere i suoi grani, che altrimenti libererebbero amidi, come l’amilopectina, rendendolo troppo colloso. Altro ingrediente chiave sono le alghe con cui il sushi viene avvolto, nori e kombu. Quest’ultima contiene il glutammato, che dà il sapore unico di umami. Anche il pesce del sushi contiene glutammato, ma il suo sapore viene in gran parte dal suo grasso, principalmente gli acidi grassi omega-3, frutto della sua dieta.